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Proprietà collettive, alcune riflessioni sui futuri scenari alla luce della prossima programmazione dello sviluppo rurale.

7 Gen 2014
  Riceviamo e pubblichiamo con vivo piacere alcune riflessioni in materia di proprietà collettive a cura del Dr. Andrea Montresor

Le proprietà collettive possono essere considerate come il retaggio – che si perde nella notte dei tempi – di quella forma di godimento della proprietà che veniva esercitata dall’uomo, quando ancora le prime comunità rurali – abbandonando l’iniziale nomadismo e organizzandosi in forma stanziale – utilizzavano il proprio territorio in forma collettiva, dalla caccia alla pesca, alla pastorizia, per arrivare all’allevamento e all’agricoltura. (Zanzucchi C., 2007 – “storia, cultura e realtà delle proprietà’ collettive” – Medit Silva – Frontone (Pu).

 

 Negli ultimi secoli, 1600-1900, queste realtà hanno raggiunto il livello più alto di organizzazione amministrativa, gestionale ed anche giuridica, dando forma e capacità rappresentativa ai territori montani.
 
Nell’ambito dell’ultimo censimento dell’agricoltura (2010) è emersa la consistente presenza di assetti fondiari riconducibili ai Demani Civici o Comunali, Terre Civiche, Domini Collettivi e/o Proprietà Collettive, Usi Civici, Comunalie, Comunanze o Università Agrarie.
 
Tale dato, che si attesta oltre il milione e mezzo di ettari (Ha), stupisce chi non conosce tale fenomeno, soprattutto per la diffusione in ogni regione di simili realtà e il loro significativo ruolo nella gestione del 4,7% della SAU e l’8,7% della SAT.
 
Un aggregato di beni patrimoniali di diversa conformazione giuridica che, anche per poca e limitata conoscenza del problema, non esprime oggi la sua reale potenzialità socio-economica e soprattutto occupazionale.
 
Infatti, nonostante l’enorme consistenza di tali proprietà, principalmente forestali e pascolive, negli orientamenti normativi e nel dibattito sulle terre agro-silvo-pastorali hanno finora prevalso le ragioni vincolistiche rappresentate dall’obbligo di inalienabilità, l’indivisibilità ed il perenne diritto d’uso civico delle popolazioni titolari su tali beni.
 
L’adozione di provvedimenti legislativi di carattere generale, ha permesso la difesa dell’istituto giuridico fino ad oggi, senza però introdurre norme necessarie alla connessione con la politica attiva dell’Unione Europea.
 
Situazione che con il tempo ha contribuito fondamentalmente a rendere sempre meno operative tali strutture, con la conseguente disaffezione da parte delle giovani generazioni nei confronti di questi istituti, comportandone un rapido e inesorabile declino istituzionale.
 
La rinomata operatività e l’esemplare lavoro che molte realtà, specialmente alpine, sviluppano ogni giorno è solo una piccola parte del gran patrimonio fondiario che versa invece in uno stato di totale abbandono. (cfr. GROSSI P., IL PROBLEMA STORICO – GIURIDICO DELLE PROPRIETÀ COLLETTIVE IN ITALIA)
 
Incontrando amministratori e ricercando negli archivi storici di parrocchie e uffici del catasto basta poco per imbattersi in documenti e testimonianze della presenza, fino a pochi decenni fa, di una fervente attività “collettiva” agro silvo anche nelle aree appenniniche.
 
Vuoi per una diversificata sensibilità alle problematiche di dissesto idro-geologico, vuoi per una vocazione turistica più incentrata sulle aree marittime, è chiaramente evidente come i territori collettivi dell’area appenninica stiano man mano subendo un rapido declino.
 
Gli effetti di quanto sopra stanno pesando non solo sulla sopravvivenza degli istituti giuridici, ma sono ben visibili anche nello “sgretolamento”” di un territorio che, se ben gestito esprime, un notevole valore economico e sociale, ma, se abbandonato, diviene una primaria emergenza nazionale, come è ben noto visti i recenti fatti in Sardegna, Liguria, Marche e Calabria.
 
E’ altresì paradossale assistere nel contempo al sempre più diffuso interesse per le filiere energetiche, per la valorizzazione multifunzionale della foresta (acqua e carbon sink), alla diffusione del “sapere contadino” e alle produzioni minori.
 
Tutti ottimi argomenti se non fosse che spesso, nelle conseguenti proposte operative, si assiste ad una emarginazione di chi per secoli ha contribuito a far sì che i territori agro-silvo-pastorali potessero esprimere tali servizi oltre che ad un prodotto legnoso. Negando ogni opportunità di rivalsa di tali realtà.
 
Come pensare di rilanciare la montagna italiana senza prima considerare il ruolo fondamentale di chi in montagna vive e vuole investire?
 
Come poter pensare di promuovere una gestione forestale sostenibile se prima non si creano le condizioni sociali ed economiche affinché chi opera in montagna possa farlo con le stesse opportunità imprenditoriali di chi opera in pianura?
 
Bisogna agire affinché vengano adottati atti normativi e di indirizzo per far sì che le realtà che ancora oggi operano, anche in situazioni difficili possano ritrovare vigore e rappresentanza presso gli operatori del settore e la pubblica amministrazione.
 
E’, infatti, indubbio che l’interesse per tale azione ricade anche verso la pubblica  amministrazione ed in particolare sulle Regioni che hanno la competenza della materia, per le potenziali implicazioni in termini di conoscenza del territorio, per l’occupazione in aree depresse e naturalmente per la spinta culturale e socio-economica nelle aree di montagna.
 
Da qui anche l’esigenza di compiere e far compiere il necessario salto di qualità alle discussioni e ai provvedimenti che vendono adottati sui diversi tavoli di lavoro che si sviluppano e si svilupperanno per la programmazione regionale dei fondi dello sviluppo rurale.
 
Sforzo che Federforeste intende fare per far conoscere e capire il “Pianeta Diverso” delle Terre Civiche e Collettive, tutte di origine pre-moderna ma con parecchi contrasti esterni, per l’intolleranza di una certa dominanza culturale, e interni, per l’incapacità di recepire il cambiamento in atto con le politiche di sviluppo rurale nell’area europea.
 
 
 
 
 

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